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Il romanzo criminale ambientato a Milano calibro 9 di quel bravo ragazzo di Scarface Scamarcio: la recensione di Lo Spietato

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Lo spietato è un film di Netflix con Riccardo Scamarcio. Libero adattamento del romanzo Manager Calibro 9, è una storia ambientata a Milano la cui promozione è incentrata unicamente su questo: essere ambientata a Milano.
E se la cosa non vi pare chissà che rivoluzione, lasciate che vi spieghi perché invece lo è.

Ripeto una cosa che ho sentito da terzi presentatisi come addetti ai lavori, sulla quale non mi prendo alcuna responsabilità ma che, tutto sommato, non mi sembra implausibile: in Italia non si fanno film ambientati a Milano perché i meridionali si indispettiscono. Ok, la ridico in maniera meno provocatoria: in Italia non si fanno film ambientati a Milano perché una grossa fetta di pubblico, diciamo tutti quelli che non vivono a Milano, nei luoghi di Milano fatica a riconoscervisi. È proprio, a quanto mi dicono, che agli occhi di un non milanese un film ambientato a Milano è come se fosse ambientato a Innsbruck: non ne capisce il senso e non gli interessa. E non si può certo dire che la cosa non sia reciproca (riguardo lo snobismo dei milanesi verso il meridione, su Innsbruck onestamente non lo so).
Non è un caso che in Italia i film siano tutti ambientati a Roma: Roma è democristiana, Roma mette d’accordo tutti.
Certo, un film può anche essere ambientato a Napoli, o a Firenze, eccetera, ma se ci fate attenzione, in questi casi l’ambientazione diventa immediatamente un plot point, come se gli autori dovessero spiegarti perché non siamo a Roma (esempio: è rilevante che Margherita Buy, dopo essere stata tradita dal marito, ritrovi la pace e l’amore tra i colli toscani; altro esempio: Alessandro Gassman, professore sopra le righe, dovrà fare breccia nei cuori di una classe problematica nei quartieri disagiati di Napoli). Roma è la condizione standard. Bologna, Torino, Firenze o Napoli esistono se c’è un motivo assolutamente valido perché quelle storie siano ambientate a Bologna, Torino, Firenze o Napoli. Milano se vuoi fare incazzare i meridionali.
Ecco, secondo me è questa la chiave di lettura più interessante (non l’unica) di un film come Lo spietato: è la storia di un meridionale che si è auto-imposto Milano. Di un uomo che si sente costantemente fuori posto, che disprezza le proprie origini, e quindi abbraccia un mondo e una cultura a lui avulsi. Gli aperitivi (non è un drink, non è una cena, ma che cazzo è?!?!?), la moda (triviale), l’arte (incomprensibile), gli stronzi: Milano, tra gli anni 60 e 80, come capitale morale dell’abbruttimento.

“E sei in pole position!”

Che poi Lo spietato racconti anche la storia di ascesa e caduta di un signore del crimine è marginale. Nel senso: molto meglio vedere Riccardo Scamarcio che ruba, pesta uccide e si arricchisce piuttosto che, boh, apre un negozio di alimentari in viale Monza e paga le tasse, ma l’azione e la violenza, che sono pure ben girate, sono poca roba e relegate sullo sfondo, un inserto che fa colore. La parte più divertente è, stranamente, sentire il pugliesissimo Riccardone calcare in maniera esagerata l’accento milanese (ho sentito più di una persona criticare la sua performance perché poco credibile: credo fosse esattamente questo il punto), osservarlo mentre si muove come un pesce fuor d’acqua, ma che fa di tutto per convincersi del contrario, negli ambienti della Milano da bere. Il genere di caso in cui overacting e “buona prova recitativa” coincidono perché è esattamente quanto richiesto dalla sceneggiatura. E Scamarcio, ormai in modalità Attore Internazionale Che Anche Hollywood Vuole, è lieto di consegnare (deliverare visto che siamo a Milano) con un’interpretazione tutta frasi biascicate, parole mangiate e sguardi sornioni, supportato da un cast di caratteristi tutti altrettanto in bolla.

“Non sono sicurissimo di come si usi, ma proviamo”

C’è dell’ambizione, per essere su Netflix, ma d’altra parte siamo milanesi e l’occhio guarda all’America con il giusto mix di hybris e senso di inferiorità che si vuole colmare a tutti i costi. Renato De Maria, che viene dalla fiction e dai filmini un po’ sfigati (ma nel 2002 fece Paz! che se non ricordo male non era mica brutto), mi piace immaginarlo come un René Ferretti che si ritrova tra le mani un budget adeguato e maestranze all’altezza per fare, per una volta, una cosa fatta bene — e ci si butta a pesce, in un mare di entusiasmo e riferimenti alti. C’è tanto Scorsese, in Lo spietato, Quei bravi ragazzi soprattutto (a partire dalla voce narrante e a chiudere con un finale quasi uguale), e per qualche motivo anche The Wolf of Wall Street, mentre la parabola di rise & fall criminale deve tutto a Scarface, con anche un paio di riferimenti visivi belli lampanti. Ovviamente si omaggia tutta la tradizione del noir-poliziesco italiano anni 70 e, inevitabilmente, Romanzo Criminale – La serie (fun fact: Scamarcio era nel film, ormai 15 anni fa, praticamente un bambino), che a un decennio di distanza è ancora uno dei più fulgidi esempi di produzione di genere 100% italiana che non ha nulla da invidiare ai modelli americani a cui si rifaceva.
Tutti casi, eccetto Scarface (ma al quale possiamo perdonarlo, via), in cui la Storia era più importante del personaggio e questa, purtroppo, è l’unica lezione che Lo spietato non segue, essendo, per necessità o imposizione dall’alto, per lo più veicolo pubblicitario, sorta di showrell lungo quasi due ore, di Scamarcio Attore. Ma Nell’eterna lotta tra il male e il mediocre delle produzioni Netflix, appartiene anche a quella categoria di film che non solo non sono da buttare, ma che addirittura corri il rischio di divertirti mentre li guardi, prima di finirli e dimenticarli per sempre.

Streaming-quote suggerita:

“Feeeeega”
Quantum Tarantino, milanese, i400Calci.com

>> IMDb | Trailer

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